Con lo Statuto Albertino, finiva che presidenti del consiglio, ministri, ambasciatori e generali, erano tutti nobili.
La Repubblica ha inteso mandare in soffitta questo monopolio. In ciò sta il senso del primo articolo della Costituzione, che dopo questa fondamentale dichiarazione di principio, fissa poi la base del nostro stato di diritto, il quale trova nella legge l’elemento essenziale non solo per disciplinare la sovranitá popolare su cui si fonda, ma anche per limitarla.
di Francesco Cristiani
Molto evocato, talvolta anche a sproposito, in pochi tuttavia conoscono il significato effettivo dell’articolo 1 della nostra Carta costituzionale: l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Per comprenderne il senso occorre pensare al tempo in cui questa norma fondamentale è stata promulgata, il 1948, all’esito dei lavori dell’assemblea costituente, durati i due anni precedenti.
La costituzione valsa fino ad allora, lo Statuto Albertino, risaliva a un secolo prima, al 1848, e per la veritá non era nemmeno “italiana”, ma piemontese, essendo stata semplicemente estesa all’intero paese dopo l’unitá nazionale.
Come funzionavano allora le cose? A prescindere dalla parentesi totalitaria del fascismo, in modo molto diverso. Perché non solo il capo dello stato era un soggetto il cui unico pregio (si fa per dire) era l’appartenenza dinastica, ma riproducendo a livello di intero sistema politico tale principio, buona parte dei ruoli pubblici erano riservati a chi poteva fregiarsi di un titolo nobiliare e basta: condizione sufficiente e necessaria per ambire a guidare il paese.
Innanzitutto il Senato del Regno, che era la camera parlamentare di nomina regia. Vi si entrava per parentela con la famiglia regnante, o chiamata diretta in base al rapporto fiduciario con re. Il quale poteva anche nominare chi non era nobile, ma accadeva raramente. Anche i diplomatici appartenevano in genere alla nobilitá, e pure in questo delicato settore giocava un ruolo essenziale la sola fedeltá alla famiglia reale.
Nell’esercito le cose andavano diversamente solo in teoria. In pratica tutti i posti di vertice delle forze armate, fino all’avvento della repubblica, erano appannaggio delle famiglie titolate. Mentre l’accento piemontese, quanto meno fino alla prima guerra mondiale, era stato un ulteriore requisito ai limiti dell’indispensabile, per fare carriera con le stellette.
Insomma, vigente lo Statuto Albertino, finiva che presidenti del consiglio, ministri, ambasciatori e generali, erano tutti nobili.
La Repubblica ha inteso mandare in soffitta questo monopolio. In ciò sta il senso del primo articolo della Costituzione, che dopo questa fondamentale dichiarazione di principio, fissa poi la base del nostro stato di diritto, il quale trova nella legge l’elemento essenziale non solo per disciplinare la sovranitá popolare su cui si fonda, ma anche per limitarla.
Per rappresentare e guidare il paese c’è quindi un unico modo: l’impegno personale, riassunto nella parola “lavoro”. Non esistono più rendite di posizione dinastiche, corsie preferenziali per ambire alla conduzione della vita politica e amministrativa. Certo, nella sua applicazione pratica questo termine, lavoro, può essere inteso in svariate declinazioni, e contenere il rischio di contraddizioni e storture. Basti pensare a quando la politica diventa professione. Ma una cosa resta ferma: essere sangue blu, per lo Stato repubblicano, non conferisce alcun valore aggiunto. Prima del 1946 non era cosi’. Ed era, senza dubbio, assai peggio.
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