di Mario Sorrentino ( già dirigente scolastico)
A mangiare il futuro dei ragazzi in Italia è la crescente povertà educativa nel Paese. Sono troppi i bambini che non hanno la possibilità di visitare una mostra, di andare al cinema, di leggere un libro, di fare sport: l’impoverimento culturale è in drammatico aumento, parallelamente al peggioramento delle condizioni economiche e sociali delle famiglie. Un minore su 7 lascia prima la scuola, altri ragazzi non raggiungono le competenze di base alla fine del percorso di studi. Recenti fatti di cronaca che vedono coinvolti ragazzi, gli stupri di Palermo e di Caivano ma non solo, fanno tornare a discutere di povertà educativa in un'Italia che si mostra anche in questo caso a due velocità tra Nord e Sud, centro e periferie, grandi città e aree interne. Come in un circolo vizioso, la povertà educativa alimenta quella economica, e viceversa.
Orbene, le nuove forme di marginalità e di povertà educative sono questioni tornate prepotentemente al vertice delle emergenze sociali, anche perché connesse a conseguenti fenomeni di devianza e di criminalità che coinvolgono, assai di frequente, ragazzi sempre più giovani. Poco più che bambini, spesso attraversati da un comune destino di incuria educativa e di abbandono morale, si ritrovano sempre più soli, per strada, dove trovano rifugio nel branco e dove più facilmente incappano in condotte devianti, che di frequente sfociano in gravi atti criminali. Tutti questi motivi costituiscono senz’altro humus di una predisposizione al rischio, che chiaramente non può e non deve rappresentare, tuttavia, una predestinazione certa. Bisogna chiedersi, cosa possa spingere un minore a delinquere, commettendo azioni, anche molto rischiose, a fronte di un profitto, a volte, anche modesto, come furti, scippi, rapine, fino allo spaccio della droga che è, inesorabilmente, controllato da organizzazioni criminali di stampo mafioso e camorristico.
Per sottrarre ragazzi al loro destino di criminalità bisogna investire molte energie in una educazione al lavoro, da destinare, particolarmente, a quei giovani provenienti da contesti economicamente più svantaggiati e condizionati dal guadagno facile svincolato dall’impegno e dal sacrificio. La parte più complicata consiste proprio nell’insegnare a riconoscere il valore della relazione lavoro-impegno-onestà-legalità e che la dignità del lavoro si esprime non tanto in quel che si fa, ma nel modo in cui lo si fa. Valori che, d’altra parte, dovrebbero ricevere dalla scuola, dalla società ma soprattutto dalla famiglia, perché il lavoro ha una dimensione fortemente identitaria. Se si proviene, infatti, da una famiglia in cui non c’è educazione al lavoro e dove è grande la povertà culturale ed economica, probabilmente si impara che un reddito, indipendentemente dal modo con cui viene procurato, può essere considerato un “lavoro”.
Così, allora, anche fare la sentinella della camorra può essere considerato una occupazione possibile. Difficilmente comprendono che il lavoro onesto costituisce una potente opportunità di liberazione e di emancipazione, altrimenti credo che nessuno di loro si condannerebbe a diventare un servo della gleba del sistema, uno schiavo di camorra in cambio di un po’ di cash e di una manciata di oggetti di status symbol criminale.
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