Benvenuti e bentrovati nella mia Rubrica. Oggi mi trovo nell'Agro Pontino dove, vestita di "stracci" sfavillanti, e in compagnia della mia lisa valigia di cartone che ho inzeppato di tipiche “ciammelle sorane” (1), (deliziosamente infiocchettate una ad una per l'occasione), sono pronta a rimettermi in viaggio. Indosso il mio rossetto rosso carminio, che fa immediatamente da tensore alla stanchezza, mentre i miei seni, floridi come di latte, sembrano respirare a malapena così ben strizzati nel corsetto e la candida camicia bianca.
Sulle spalle ho adagiato un foulard e ne ho appuntato un altro tra i capelli, in tipico stile ciociaro, a cui ho abbinato dei monili, rigorosamente di corallo, e appertenuti alla mia cara bisnonna Emilia. Nel lungo gonnellone di lino blu tinto a mano con il guado (2) ho invece nascosto dei gessetti colorati, (non si sa mai che mi venga voglia di giocare a castello), mentre mi incammino tra i piccoli rilievi dell'Appennino Centrale, dove Valle di Roveto e Valle di Comino si strusciano e il Liri fluisce. Fa molto caldo, e ciondolandomi tra un negozietto e l'altro, prendo a rinfrescarmi le cosce ad una fontanella mentre mangio 'mbriachelle (3) e faccio bolle con la cannuccia del succo di frutta.
Sarà un lungo cammino il mio, e con il permesso che mi avete tacitamente accordato, strada facendo ho slacciato le corregge e tolto le ciocie (4) così che quando a sera rincaserò, stremata dai miei giochi e sazia delle mie fantasie, potrò constatare, con estrema gratitudine, che i piedi saranno diventati squisitamente luridi, a riprova di essermi sporcata di vita tutta. Intanto a piccoli passi avanzo, godendomi la brezza piumata del fiume Liri che, sornione, fa gargarismi tra le rive urbane. Finalmente inizio a intrevedere Sora, e in lontananza, mi sembra di poter scorgere sulle sponde erbose del fiume la sagoma di un uomo e del suo cavalletto in legno di faggio.
Ho prontamente portato con me carta e penna, chissà che non mi accada qualcosa di bello e meritevole di nota. Con l'irrequietudine che si perdona ad una ragazzina in piena fase adolescenziale, con le mani zuppe di sudore dalla tensione, (che ho abilmente nascosto sotto il grembiule ricamato), a passo sicuro, e accennando appena una impacciata smorfia di cordialità, a testa alta mi avvicino a quell'uomo quando ecco che lui si volta. È il mio amico Antoine, un pittore francese, uno di quei nostalgici distrattamente vestito; ha gli occhi cerulei, grandi come pozzanghere a cui ogni passera assetata vorrebbe abeverarsi, e i capelli neri, fitti come rovi di more. Sono giunta fin qui per fargli da modella ed è per questo motivo che ho prestato particolare attenzione alla mia vestitura; con la canapa e con la lana della pecorella che avevo in casa ho filato e personalizzato il mio abito, con merletti di pregio l'ho impreziosito, e con la fuliggine e il mallo di noce ho realizzato molte delle sue irreplicabili sfumature.
Esistono molti abiti ciociari ma questa mia dedizione mi garantirà che nessun altro gli assomigli, sarà un brillamento di colore e singolarità. È da quando la mia amica Roberta mi ha confidato di come il nostro costume, oltre a essere fonte di sostentamento, rappresenti per molti artisti europei motivo di vivace interesse, pare ci vedano come la materializzazione degli ideali classici, che ho iniziato a sperare che un ritratto potesse cambiare le mie umili sorti, proprio come è accaduto a lei. Chissà che Antoine non ne resti abbagliato decidendo di fare di me la sua musa e portandomi con se a Parigi. Vi immaginate un mio ritratto, a rappresentanza delle nostre povere genti e della loro dignità di braccianti, appeso nel museo d'Orsey? Sarebbe un orgoglio per me portare la bellezza del sudore etico di mia nonna fin lì. Intanto vezzosamente mi metto in posa e Antoine, sordamente, mi sorride lasciandosi tradire, nel suo apparente distacco, da quel quasi impercettibile deformarsi delle labbra, e da una fiammella di muta soddisfazione che gli esagita le pupille mentre tira, concitatamente, pennellate sulla tela al ritmo di un nevrotico direttore d'orchestra.
Poi d'improvviso un fermo immagine reboante, Antoine smette di dipingere e tra di noi scende un silenzio quasi pruriginoso. Ci sediamo sul prato quando decido di aprire la mia valigia tirando fuori la collana di ciammelle (adagiate sulla paglia affastellata); gliene porgo una, poi un'altra e un'altra ancora perché il cibo, si sa, ha la capacità di riunire persone da ogni dove, e come gomene trattenerle in ogni porto. Non ci è neccessario nient'altro perché se, per alcuni, i silenzi possono risultare vuoti imbarazzanti, per gli innamorati, quelli veri, sanno essere addirittura riempitivi, e questi ne vanno assolutamente ghiotti. Intanto s'è fatta sera e Antoine ed io, appoggiati di schiena a un salice dal fogliame verde rilucente, ci apprestiamo a cenare a lume di lucciole mentre le cicale, vegliando su di noi, si offrono di suonare per qualche ora o per tutta la notte, chissà…
Dalla mia Rubrica sTRUtto & parruCCO per oggi è tutto. Vi ricordo che potete seguirmi anche sulla mia pagina Instagram (@mariannamarramakeupartist), dove avrò piacere di accogliervi.
Come da consuetudine grazie per essere stati in mia compagnia, a presto.
● (1) La ciambella sorana è un prodotto da forno a base di farina, lievito naturale, acqua, sale e semi di anice. Ha una forma circolare tipica della ciambella, o “ciammella” nella forma dialettale. Non si conoscono bene le origini di questo alimento; quello che si sa è che veniva prodotto già nell’alto Medioevo.
Alcuni richiami si hanno anche tra ‘500 e ‘600, periodo in cui viene citata in alcuni documenti dell’archivio storico diocesano. “Fin dai tempi più antichi, a Sora la bionda ciambella ‘ciammella’…i ciociari usavano e usano mangiarla come pasto unico… le fidanzate usavano offrire una grossa ciambella, la rotella, ornata con un bel fiocco come dono augurale ai fidanzati. Anche in occasione delle nascite, si usava regalare ciambelle”. Parte di questi “riti” si sono persi col tempo, ciò che non è cambiato è la voglia di assaporarla. Fonte www.frosinoneitaliani.it
● (2) Guado o Gualdo è una pianta officinale tintoria chiamata anche “oro blu” perché, nel passato, era stata al centro di un fiorente commercio in Italia, Francia, Germania e Inghilterra. Veniva coltivata per ricavare dalle foglie, con un lungo procedimento, il colore blu in tutte le sue gamme e sfumature da utilizzare per tingere i tessuti. Se si mescola con altri colori naturali si possono ottenere altre tinte.
Oggi, visto il crescente interesse verso produzioni che siano compatibili e rispettose dell’ambiente, la coltivazione del Guado e, più in generale, delle tinture naturali è stata riscoperta in quelle zone in cui era coltivato anticamente. L’Istatis tinctoria potrebbe diventare una buona opportunità economica poichè può essere impiegata in svariati settori: alimentare, tessile, cosmesi, farmaceutico e industriale. Ha anche proprietà curative: anabolizzanti, antiscorbutiche, astringenti. Fonte Azienda Agricola Erika Caldera.
● (3) ‘Mbriachelle dolce tipico ciociaro, prodotto simbolo della tradizione contadina: un prodotto “povero” ottenuto con ingredienti alla portata di ogni casolare – farina, olio, vino, lievito – ricoperte da granelli di zucchero. Già dal nome 'mbriachelle, si capisce che sono ottime compagne del vino rosso a fine pasto senza appesantire lo stomaco; si immergono nel bicchiere pieno di vino e si degustano ai ritmi usuali della civiltà contadina: lenti, pacati, sia nell’immersione dentro il bicchiere, sia nella degustazione. Fonte www.trueblueitaly.It
● (4) Ciocia – Calzare rustico di antichissima origine, un tempo di uso comune tra i contadini e i pastori dell’Italia centro-meridionale; è costituito da un pezzo di cuoio rettangolare, più grande della pianta del piede, attorno alla quale è rialzato per mezzo di corregge che, passando nei buchi degli orli, s’intrecciano sulla parte inferiore della gamba, di solito avvolta da una pezza di tela bianca. Fonte TRECCANI
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