di Alessandro Raggi, psicoterapeuta e psicanalista junghiano
Guardando gli ultimi eventi delle Olimpiadi e la vicenda di Imane Khelif, ci ritroviamo di fronte, ancora una volta, ad un teatro delle ombre, dove la psicologia fa da prima attrice non riconosciuta. In un colpo solo, molti italiani si sono trasformati in esperti di genetica, una sorta di evoluzione naturale per chi era già diventato esperto di COVID-19 durante le pizzate famiglia a base di lievito ottenuto al mercato nero. Chi l'avrebbe mai detto che passare da virologi a genetisti e conoscitori del cromosoma Y sarebbe stato così semplice?
È affascinante osservare come le nostre menti, sotto pressione, scelgano spesso la via della polarizzazione piuttosto che quella della riflessione. E come in uno stadio durante la finale della Coppa del Mondo, si formano gruppi e fazioni: tutti pronti a tifare per la propria squadra ideologica, ma invece di calcio parliamo di genetica — e il pugilato? Quello rimane sugli spalti, visto di rado. È come se fossimo programmati per semplificare questioni complesse, riducendole a un semplice “noi contro loro”.
Improvvisamente, Khelif si trasforma in un mosaico di etichette: omosessuale, transessuale, transgender, intersex, ermafrodito, binario... un elenco che più che descrivere una persona, sembra il frutto di una sessione creativa sotto acidi. In tal modo le etichette fungono da scorciatoie mentali che permettono di evitare il fastidio di comprendere realmente una situazione.
Per tagliare corto e parlare chiaro: Khelif è una donna. A quanto pare, possiede anche una variazione genetica che, grazie (o a causa) di un cromosoma Y, le conferisce tratti fisici tipicamente maschili, come una muscolatura più sviluppata. Questa condizione non è classificata come malattia e non ha niente a che fare con l'identità di genere. La nostra pugile può identificarsi come vuole: omosessuale, bisessuale, eterosessuale..., le etichette da appiccicare sono solo sue.
Il vero fulcro della polemica, dunque, non sta nel dibattere se Khelif sia "donna abbastanza" per competere. La questione chiave è se la presenza di un cromosoma Y, che può conferire alcune caratteristiche fisiche tipicamente maschili, rappresenti un vantaggio competitivo ingiusto nel pugilato femminile. Qui nasce un dubbio legittimo.
Per amor di verità, va considerato che anche chi ha un corredo genetico conforme al proprio sesso e senza variazioni, può manifestare caratteristiche fisiche eccezionali. Michael Phelps aveva oltre due metri di bracciata e piedi che sembravano pinne da immersione profonda. Con i suoi 2 metri e venti di altezza e 55 di scarpe, Victor Wembanyama arriva a canestro solo allungando un braccio. Ricordiamo anche Oscar Pistorius, velocista amputato di entrambe le gambe: prima escluso poi riammesso alle Olimpiadi per le sue protesi biomeccaniche, che pare gli conferissero un vantaggio non indifferente.
La psicologia ci insegna che siamo costantemente alla ricerca di spiegazioni semplici per fenomeni complessi. La realtà è che la natura non si conforma alle nostre categorie. Ecco perché polarizzarsi su chi abbia o meno il "diritto" di competere, utilizzando lenti ideologiche o pregiudizi, non fa altro che alimentare un dibattito che spesso perde di vista i fatti concreti.
In conclusione, è davvero il cromosoma Y a fare la differenza? O dobbiamo considerare che anche chi presenta un corredo genetico senza variazioni, ma con caratteristiche morfologicamente superiori, possa essere altrettanto avvantaggiato? La risposta non è così scontata. Con la tecnologia ormai integrata nel nostro essere e la biologia scrutata attraverso lenti sempre più precise, le differenze che un tempo sfuggivano ora diventano materia di studio, discussione e, perché no, di qualche buona risata di fronte all'assurdo di certe polemiche.
Approfondimento psicologico sui termini utilizzati (piccolo glossario):
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