di Mario Sorrentino, già dirigente scolastico
Il politicamente corretto, più conosciuto come «politically correct» rappresenta una corrente ideologica che si basa sull’attenzione meticolosa riguardo al rispetto verso al prossimo, evitando eventuali offese. Tematiche come uguaglianza di genere, etnia, religione, orientamento sessuale o politico compaiono costantemente in primo piano. Un linguaggio e degli ideali che pilotano media, istituzioni e politica, che però stanno precipitando nell’estremismo. Il problema? Nessuno se ne sta accorgendo. Questa filosofia sta omologando le diversità che rendono il nostro mondo variegato.
Obbliga moralmente l’opinione pubblica a seguire questa corrente di pensiero, rendendola depensante. Si batte per la democrazia, per la libertà di pensiero e di parola, contrario alla censura, mentre soffoca arte e cultura, iniziando a cercare di rimuovere il quadro di San Michele Arcangelo (1635), perché ricorda la morte di George Floyd e condannando il celebre film «Grease» perché sessista, ignorando il fatto che il razzismo e la disparità di genere non si abbattono occultando opere d’arte.
Il tema è un tormentone che dura da anni anche se negli ultimi tempi viene declinato con un’altra espressione: cancel culture, cultura della cancellazione. Da noi è una moda che spinge a forme di autocensura e censura ridicole. Il rischio è di abituarsi a un linguaggio moralmente inattaccabile ma artificiale per non incorrere in figuracce globali. Nel tempo si sono avute, ad esempio, le modifiche in campo sanitario,da paziente ad assistito, oppure quelle relative alla disabilità:non vedente piuttosto che cieco, non udente per sordo, portatore di handicap e, in generale,persona con disabilità anziché disabile.
Negli USA, invece, è un’arma di pressione su enti pubblici, ditte, partiti e istituzioni perché puniscano un loro membro che propaga concetti discriminatori, un mezzo per veicolare una cultura più attenta alla diversità attraverso un linguaggio pubblico inclusivo e rispettoso. Stiamo comunque parlando di un Paese che non ha ancora risolto il problema del razzismo. E se si vuole cambiare la mentalità gretta di chi si sente superiore per razza o per nascita è giusto cominciare dal vocabolario e dall’eliminazione di espressioni irrispettose o ingiuriose.
Da questo punto di vista, il politicamente corretto tutela i deboli dai forti, i diversi dai sedicenti «normali» e dai loro pregiudizi. Il problema, sono gli eccessi. Come la pretesa di censurare il passato con le idee del presente, cancellando le tracce di una cultura che oggi consideriamo sbagliata. A questa stregua non solo dovremmo mandare al macero il quadro di San Michele col piede sulla testa del diavolo, ma dovremmo abbattere il Colosseo perché è il più grande monumento allo schiavismo che sia mai stato edificato.
Da tutto ciò vien quasi di capire che alle ingiustizie subite dalla donna nei millenni si cerca di porre riparo con una frettolosa – quanto necessaria – rivoluzione a tutto campo. Giusto allora equiparare non solo i diritti, ma anche le possibilità reali di accesso alle responsabilità politiche, i compensi economici per analoghi incarichi e via dicendo. Giusto, soprattutto, riconoscere che una donna ha il diritto di scegliere per sé stessa della propria vita, giusto mandare all’isola del Diavolo per una condanna a vita e senza appello chi commette infamità di sorta contro una donna perché la reputa soggetta alla propria volontà e potestà.
Tutto ciò premesso, a scanso dei soliti equivoci, ci si chiede se la via più rapida ed efficace per ottenere il risultato della equiparazione dei diritti e dei riconoscimenti sia quella della omologazione e dell’appiattimento. E,ci si chiede, in particolare, se la soluzione del nostro problema di civiltà stia davvero primariamente nel linguaggio.Che il linguaggio sia veicolo di discriminazione è assolutamente vero e possibile, ma sembra necessario fare dei distinguo e, soprattutto, evitare con un po’ di coraggio scelte ipocrite.
Si può fare storia e filologia, ad esempio, sulle definizioni del ‘negro’ che diventa ‘nero’, e poi, ‘di colore’, e poi ‘afroamericano’ e domani chissà che cos’altro. Ma se sei razzista e il negro lo disprezzi non sarà certo il modo in cui lo chiami che ne cambia la ricezione o ti converte all’amore per lui. Quando da ‘giudeo’ siamo passati a ‘israelita’ e poi a ‘ebreo’, è forse cambiato qualcosa nei sentimenti della gente e degli antisemiti in particolare? Forse che il disprezzo non può passare anche attraverso l’apparentemente più neutro termine di ‘afroamericano’ o del datato ed eufemizzante ‘israelita’?
Il cervello e i pregiudizi non cambiano con l’evoluzione del linguaggio. È all’educazione che si dovrebbe assegnare il compito di cambiare l’atteggiamento degli individui e di una civiltà. Ed è vero che, dell’educazione, il linguaggio è una parte, ma certamente non la sola e non la maggiore. Pericoloso illudersi che modificando il linguaggio si possano modificare i modi e i contenuti.E, alla fine, si rischia di cadere nel ridicolo del politically correct più estremo e irragionevole, che diventa, alla breve e alla lunga, una vuota posizione ideologica.
Quando, ad esempio, l’intellettuale di sinistra e/o i finti progressisti dichiarano la propria orgogliosa appartenenza politica ricorrendo alla schwa o all’asterisco per non usare il maschile che discriminerebbe tutte le lettrici donne, ti chiedi quanto di pretestuoso ed esibito ci sia nella loro scelta. ‘Car* tutt*’, può capitare di leggere. O anche ‘Carə tuttə’. Che ovviamente non sai come leggere e ti è impossibile leggere.Quanto è difficile accettarle, invece, le differenze, mantenendo al tempo stesso il rispetto l’uno dell’altro, e riconoscendo l’uno i diritti dell’altro.
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