Dietro la facciata dei titoli di studio, in Italia vi è spesso una drammatica carenza di conoscenze e competenze. Il dato che meglio la sintetizza – lo prendo dall’ultimo Rapporto Invalsi - è che alla vigilia della maturità, al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, uno studente su due non raggiunge un livello accettabile di apprendimenti in matematica; e la quota arriva addirittura intorno al 70% in alcune regioni del Sud. Le percentuali di studenti che non raggiungono una soglia adeguata di competenze sono altissime. Soprattutto fra quelli che provengono da ambienti sociali e culturali svantaggiati, con il rischio non solo di faticare a trovare un lavoro soddisfacente, ma anche di non diventare cittadini in grado di partecipare con pienezza alla vita della comunità. Oggi la nostra scuola non garantisce efficacia ed equità nell’apprendimento: l’ascensore sociale si è arrestato. E si è arrestato, in particolare, dopo la terza media: a 14 anni si è obbligati, infatti, a scegliere l’indirizzo degli studi superiori.
di Mario Sorrentino, già dirigente scolastico
Riparte la scuola in tutto il paese. È un segnale importante ed emozionante. Nonostante guerra e crisi economica, elezioni politiche e variazioni climatiche, i ragazzi e le ragazze tornano a scuola, a istruirsi e a formarsi. E a loro si uniscono, in tempi e modalità diverse, anche gli adulti, convinti che l’apprendimento è un diritto e anche un dovere per tutta la vita.Una bella iniezione di ottimismo e voglia di cambiare le cose per loro e con loro. Una prima grossa questione è la maggiore considerazione che bisogna avere per gli studenti, il maggiore coinvolgimento dei nostri ragazzi nelle scelte politiche ed economiche più importanti, perché riguardano e riguarderanno loro molto più di noi.
Clima e ambiente, qualità della vita e formazione, lavoro.Si riparte ed ecco i problemi: insegnanti che mancano, orari ridotti per chissà quanti giorni. Non mancano scuole “furbe” che contemporaneamente anticipano “in nome della loro autonomia” il ritorno dei ragazzi, ma gli impongono orari ridotti per vuoti nell’organico di docenti e bidelli. Poi “recupereranno” più avanti.È solo l’inizio; potrebbero seguire, in successione, carenza di spazi, inagibilità di locali adibiti a palestre, assenza di laboratori, e speriamo non anche furti, vandalismi. Insieme a ciò che succede in tutte le scuole, senza limiti geografici: episodi di bullismo o fiammate di pandemia.
Dunque c’è bisogno di normalità e di concretezza nel risolvere i tanti problemi sul tappeto: il precariato che non scompare, i troppi posti vacanti nelle dirigenze e nelle segreterie, la carenza di docenti di sostegno (e una diversa politica dell’inclusione). Ma servirà qualche colpo d’ala per superare le criticità storiche del nostro sistema: risultati di apprendimento non soddisfacenti, divari insostenibili tra Nord e Sud, scollamento con il mondo del lavoro, contrasto all’insuccesso e alla demotivazione degli studenti verso lo studio (e quindi una più coraggiosa innovazione degli ambienti di apprendimento e della didattica).
Un insieme di questioni, vecchie e nuove, che attendono da troppi anni di essere affrontate. Sarebbe ingiusto non riconoscere che, dal Dopoguerra a oggi, l’istruzione italiana ha compiuto passi da gigante nel raggiungere fasce sempre più ampie della popolazione.Ma questo non basta e non consola. Se, infatti, non ci limitiamo a osservare gli anni di istruzione o i titoli di studio ottenuti, ma consideriamo la qualità di ciò che studenti e studentesse sanno davvero, la situazione non è rosea. Dietro la facciata dei titoli di studio, in Italia vi è spesso una drammatica carenza di conoscenze e competenze. Il dato che meglio la sintetizza – lo prendo dall’ultimo Rapporto Invalsi - è che alla vigilia della maturità, al termine di un ciclo scolastico durato 13 anni, uno studente su due non raggiunge un livello accettabile di apprendimenti in matematica; e la quota arriva addirittura intorno al 70% in alcune regioni del Sud.
Le percentuali di studenti che non raggiungono una soglia adeguata di competenze sono altissime. Soprattutto fra quelli che provengono da ambienti sociali e culturali svantaggiati, con il rischio non solo di faticare a trovare un lavoro soddisfacente, ma anche di non diventare cittadini in grado di partecipare con pienezza alla vita della comunità.Oggi la nostra scuola non garantisce efficacia ed equità nell’apprendimento: l’ascensore sociale si è arrestato. E si è arrestato, in particolare, dopo la terza media: a 14 anni si è obbligati, infatti, a scegliere l’indirizzo degli studi superiori.
E questa scelta dipende largamente dalle condizioni delle famiglie.Per migliorare la qualità degli apprendimenti e diminuire le disuguaglianze è necessario cambiare la qualità della formazione dei docenti e il sistema di reclutamento.Per la prima si deve partire dalla consapevolezza che – soprattutto per le secondarie – in Italia essa è stata fino a oggi sbilanciata sulle conoscenze disciplinari. Un nuovo percorso di formazione richiede un’integrazione tra conoscenze disciplinari e psico-pedagogiche, teoriche e pratiche.
Sono gli stessi insegnanti a dirsi insicuri delle proprie competenze didattico-pedagogiche, come ha rivelato l’ultima indagine OCSE-TALIS. In questa direzione va - ed è il suo pregio principale – la recentissima legge 79,fra le riforme previste dal PNRR, approvata dal Parlamento a fine giugno. Per diventare insegnanti di ruolo ci sarà un percorso definito e – si spera, ma qualche dubbio resta – senza nuove scorciatoie o sanatorie: dopo un anno di corso con 60 CFU, che integrerà la laurea magistrale,un esame di abilitazione, da superare prima del concorso pubblico di assunzione, accerterà la conoscenza della materia e la capacità di insegnarla.Infine,sulla cronica mancanza dei docenti adogni inizio di anno scolastico.
L’Associazione Nazionale Presidi, sostiene che l’unico modo per risolvere la mancanza di insegnanti sia un cambio di strategia radicale: la chiamata diretta, cioè l’assunzione diretta degli insegnanti da parte delle scuole. Questo modello prevede che la gestione delle assunzioni non sia più centralizzata a livello provinciale, ma affidata direttamente alle scuole, chiamate ad assumere un numero contenuto di insegnanti ogni anno – 4 o 5 – per coprire i posti vacanti.Questa soluzione è sempre stata osteggiata dai sindacati, che temono una deriva verso assunzioni non basate sull’esperienza o sul merito, ma su amicizie e clientele.
Ad ogni modo,si riparte sempre con un insieme di questioni, vecchie e nuove, che attendono da troppi anni di essere affrontate. Dunque, al di là di ogni retorica, non resta che auspicare un buon anno scolastico e buon lavoro a tutti coloro, dal ministro all’ultimo dei collaboratori scolastici, che hanno il compito di far funzionare la scuola della nostra Repubblica.
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