Di Mario Volpe
In uno Stato democratico, sì sa, le decisioni di governo spetterebbero alla popolazione che si dovrebbe esprimere in maggioranza sulle diverse questioni di amministrazione della società. Ma l’attuazione della democrazia, un po’ come la intendevano gli antichi greci, attualmente è quasi impossibile da esercitare sui grandi numeri e a tale scopo è stato necessario pensare a forme, che potremmo definire impure, quali la democrazia rappresentativa che caratterizza fortemente, tra l’altro, il nostro paese.
Il concetto di democrazia, in tale caso, si esprimerebbe e si esercirebbe attraverso figure di rappresentanza elette in parlamento che dovrebbero assumere il ruolo di portavoce dei propri elettori interpretando, quanto più possibile, le volontà di questi ultimi. Cosa piuttosto semplice a dirsi che a farsi, dal momento che nel corso delle varie legislature e con l’avanzare dei mandati gli intendimenti degli elettori divengono aspetti marginali, salvo essere rivalorizzati in pompa magna e sbandierati da minoranze di opposizione nel tentativo di scuotere le coscienze popolari sopite dal vivere quotidiano.
Ed è per ridestare l’elettorato dal torpore in cui affonda, dopo ogni fervore elettorale, che si sguaina l’arma democratica del referendum che, spesso strumentalizzato, rischia di trasformarsi da diritto alla partecipazione attiva alle decisioni dello Stato a sotterfugio per destabilizzare esattamente quelle promesse di governo (indipendentemente dal loro colore politico di riferimento) che hanno portato uno schieramento politico alla vittoria elettorale. Così, il referendum da strumento diretto con cui si chiede all’elettorato di esprimersi su una specifica proposta rischia di trasformarsi in una pugnalata alle spalle per gli stessi elettori a causa della poca chiarezza con cui spesso vengono formulate le proposte di voto.
Tra l’altro la poca chiarezza è già insita nelle stesse forme tecniche di referendum per lo più oscure al classico uomo della strada che, travolto da una valanga di problemi quotidiani, diventa poco attento alla vera potenzialità di un simile strumento democratico che la materia giuridica inquadra in diverse forme. Abbiamo, quindi, referendum abrogativi, in cui si richiede il consenso popolare per cancellare una legge esistente e dove spesso la poca chiarezza tende a confondere l’elettore provocando l’esatto opposto per cui si era intesa istituire la consultazione. Il referendum consultivo; per chiedere il parere popolare in merito a una particolare questione o quello confermativo per chiedere il consenso popolare in merito a una legge appena promulgata. Ma, tra le varie forme di referendum, quello propositivo – ovvero il voto per una legge proveniente dall’espressione popolare – non è prevista dal nostro ordinamento, privando di fatto la democrazia di uno strumento fondamentale.
Partendo esattamente da queste ambiguità, dove c’è il rischio che le intenzioni di ‘no’ spesso sono interpretate come ‘si’ e viceversa, e che i referendum spesso non raggiungono il ‘quorum’ ossia quel minimo di voti per cui sia considerato valido, vanificano – di fatto – gli sforzi per la loro attuazione.
Il rischio che ogni proposta referendaria sfumi in una nuvola di vapore non è affatto remota e, con ogni probabilità, l’intenzione di evitare il loro fallimento spinge a proporli con la stessa enfasi delle elezioni, come di recente accade con le proposte di espressione popolare sulle autonomie regionali o in materia di attribuzione della cittadinanza con il rischio che, un’informazione poco corretta e una conoscenza non approfondita degli argomenti, porti a un’inconsapevole peggioramento di quegli aspetti civili che paradossalmente si vorrebbero migliorare.
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