“È una dipendenza, Dottore?”.
In inglese le chiamano “false friends”: sono parole che suonano terribilmente simili a parole italiane ma che hanno tutt’altro significato. Anche in psichiatria esistono molte false friends (così come nella vita, a ben pensarci), e sono parole che o hanno un significato completamente diverso (si pensi all’uso di maniacale per dire ossessivo) o parole che si avvicinano al significato giusto senza coglierne la reale essenza. Del resto lo facciamo tutti, senza riceverne la giusta punizione, ogni giorno quando pretendiamo (“pretender” in inglese significa simulare, fingere) di usare un termine tecnico senza averne le competenze.
Ma questa è un’altra storia. Che cos’è tecnicamente una dipendenza? Con tutti i limiti di un discorso divulgativo da domenica mattina, la dipendenza può essere considerata come una rivelazione. È l’incontro della vita, quell’evento che fa da spartiacque tra un primo ed un dopo. “Come ho fatto a vivere senza? È ciò che ho sempre cercato!”. Così, forte di questo stato di beatitudine, la mia vita sarà finalizzata esclusivamente, e ad ogni costo, alla ricerca di quella sensazione, alla ripetizione di quell’evento.
Tutto ili resto perde di significato, come se fosse marroncino chiaro. È davvero l’incontro della vita? Sì, se lo consideriamo alla stessa stregua di quei grandi amori eterni che non durano che un battito di ciglia. Sono essenziali soltanto nella nostra testa, che diventa il teatro di una distorsione cognitiva per la quale l’effimero si veste a festa e lo incoronano re. Il popolo è indotto a pensare di non poter vivere senza il suo sovrano, anche se questi è un tiranno; così, il cattivo diventa buono, il popolo sudditi e poi schiavi, le leggi prima severe ma giuste e poi inique vessazioni. Una dipendenza può essere buona proprio come può esserlo un tiranno sanguinario: per cattiva fede o incapacità di ribellarsi.
No, non esiste una dipendenza buona, e per due motivi. In primo luogo, perché la psichiatria non è una religione e non fa morale; in secondo perché, in virtù della distorsione cognitiva di cui sopra, io non esisto più se non in relazione all’evento/sostanza e la mia vita è regolato da esso. Così, quando Giuseppe resta tutta la notte prima dell’esame a giocare alla Playstation in mulltiplayer, non posso pensare sia un appassionato, un nerd o semplicemente una testa di pixel, ma devo mettere insieme questo fatto alle uscite con gli amici cui ha rinunciato, alla visita mancata alla nonna morente cui era legatissimo o a quella ragazzina che, come un evento più miracoloso che raro, gli aveva chiesto di uscire e lui ha detto no, perché c’era un torneo (che Dio lo perdoni, o meglio lo fulmini, se gli va).
Una dipendenza si misura dalla sua interferenza con la vita di tutti i giorni, e dalle reazioni del soggetto quando si prova a distoglierlo da essa. Sulle prime, di Giuseppe già sapete tutto; sulle seconde, beh, c’è soltanto l’ovvio da dire. Il piccolo cucciolo, il pulcino di mamma diventa l’incredibile Hulk se non lo si fa giocare. Carattere? Educazione? Non in questo caso. Qui c’è qualcosa di più serio, una necessità fisica che discende direttamente da qualcosa che si è perturbato nella sua testa di tardo adolescente modicamente brufoloso (sì, ci sono ancora ragazzini brufolosi, al giorno d’oggi: è uno scandalo). È una sorta di horror vacui, una angoscia di morte, una paura di annichilimento che lo costringe, in ogni momento, a diventare Warmachine31 e a restare lì, come se fosse il suo posto nel mondo. Potrebbe essere la cocaina o l’alcol, ma tutto questo è legale, e più socialmente accettato.
“È un disturbo, signora mia, una malattia se preferisce, un guaio, un danno, una sciagura. Chiamiamolo come vogliamo, basta che comprendiamo che non è un vizio, né soltanto un gioco”. Stasera, quando esco, non porterò il telefono con me: stasera non voglio raggiungere ed essere raggiungibile, stasera voglio vivere pericolosamente.
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