“Ma sono bipolare, Dottore?”
Le parole, come diceva Moretti, sono importanti. E di parole, nella rete mondiale estesa, se ne trovano tante: miliardi e miliardi di parole, di teorie e di spiegazioni che affermano tutto e confutano tutto, ribaltando le cosiddette verità come si ribaltano i calzini e contravvenendo spesso al principio metodologico più valido, vale a dire quello del rasoio di Occam. In psichiatria ciò che sembra è ciò che è, ma solo a patto di sapere cosa andare a guardare. Serena aveva un bel nome, molto lontano dalla sua inquietudine. Una inquietudine recente, se vogliamo, venuta fuori apparentemente a caso tra un periodo intenso ed un altro. Non come al solito una piccola battuta di arresto tra una accelerata ed un’altra, ma ansia, tanta ansia ed insofferenza. Una insofferenza nuova e strana, un’ansia che non è ansia ed un umore che non è né su né giù ma è tutti e due, alternativamente e contemporaneamente. Non da mettersi a letto a guardare il soffitto come se fosse un film ma neppure da appendersi ai muri come l’uomo ragno, eppure spiacevole per sé e per gli altri. Una novità che l’aveva portata da me su consiglio del suo terapeuta che, temendo il peggio, voleva correre giustamente ai ripari. Credete davvero che il problema sia la diagnosi? Vi sbagliate, la diagnosi è una cosa semplice. Le terapie, allora? Sì, lo sono un po’ di più, ma soltanto se si ha la velleità di azzeccarle al primo colpo con il minore dosaggio ed il minor numero di farmaci possibile. Il vero problema, amici miei, è la comunicazione. Cosa vuol dire comunicare? Comunicare significa dare al proprio interlocutore le informazione esatte che in quel preciso momento può accettare nella esatta maniera in cui può comprenderle. Niente di più, niente di meno. È come il “vertere” del latino. Cosa dovevo dire a Serena? Ciò che potevo: quando si fa ciò che si può, si fa ciò che si deve. E ciò che potevo doveva essere il giusto equilibrio tra la rassicurazione e la preoccupazione perché, per una distorsione cognitiva, una brutta ma non bruttissima certezza è meglio che una indefinita speranza. Del resto, è proprio di un individuo sano sovrastimare passato e futuro rispetto ad un presente che è sempre peggiore di entrambi. Ciò non avviene per i soggetti affetti da schizofrenia, ma questa è decisamente un’altra storia (oggetto di un convegno cui parteciperò a breve, ma questa è ancora un’altra storia). Se non una diagnosi, cosa dirle, allora? Prendi questo e starai bene? No, non avrebbe funzionato perché, nella rete mondiale estesa, avrebbe trovato le peggiori diagnosi basate su quella terapia, come se si potesse inferire una diagnosi da una terapia. La terapia, in psichiatria, non fa il monaco, mai. Non mi restava che dare la colpa ad Akiskal ed al suo vizio di vedere bipolari ovunque. Bipolari sotto soglia, appena accennati, sussurrati: tutti se stanno male vanno trattati. Del resto, non c’è disturbo senza disagio. Ma quando il disagio c’è, e qui c’era in maniera lentamente ingravescente, la terapia deve essere proposta. Del resto, non mi è mai capitato che una persona giungesse da me per curiosità, anche se non sempre ho ritenuto opportuno di trattare i sintomi che mi venivano presentati. Del resto, non si trattano i sintomi, ma anche questa è un’altra storia. “Lei è Serena, ed il suo essere è ben più complesso di qualsiasi diagnosi raffinata io possa farle. Usi questo farmaco come si usa il dentifricio per lucidare l’argento: non sarà il suo uso primario, ma funziona”. “Io non sono fatta d’argento, Dottore, ma d’oro”. “Allora cominci con un dosaggio più alto, non vorrei restassero aloni”. Akiskal era un fottuto genio.
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