“Non vuole fare niente, non organizza una uscita con gli amici. Però, se gli amici lo vengono a prendere, esce e si diverte. Non è malato, è pigro, Dottore”. Le definizioni, che bella invenzione! Sto impegnando tutta la mia vita a sfuggirle, ma esse trovano sempre un modo per fare capolino e trovarmi. Per il mondo ci riduciamo a quella parte che vede in noi, noncurante se sia un tratto caratteriale, una manifestazione episodica, una reazione alla sua presenza (quindi, situazionale o reattivo) o espressione di una malattia (lo so, dovrei dire “disturbo”, ma ho dormito ancora meno del solito). Le definizioni sono macigni: sono etichette pesantissime che ci portiamo in giro e sotto il cui peso spesso finiamo per essere schiacciati.
Prendete Gennaro, ad esempio: con questo nome filo austriaco e questa “indolenza” che la madre gli attribuisce, non riesce a scostarsi molto dallo stereotipo del napoletano fancazzista. Uno che non studia più, che non vuole andare a lavorare, che passa il giorno con il cellulare in mano e le cuffiette nelle orecchie, sdraiato sul letto a non fare niente. E, poiché non riesce mai a finire di farlo, il giorno dopo continua, per non lasciare le cose a metà. Gennaro ha cominciato a cambiare a sedici anni, chiudendosi ad un mondo che percepiva sempre più minaccioso ed inadatto. Nulla di definito, se vogliamo: una sorta di paura del buio da bambini.
Poi le cose sono diventate più chiare, ed il mondo ha cominciato a minacciarlo e a far sentire la sua voce in ogni modo possibile, anche mentre guardava un film o provava a leggere qualcosa. Dato il suo quartiere di origine, non propriamente il Principato di Monaco, tutti hanno pensato a qualche bravata ai danni di qualcuno con conseguenti minacce, o ad una storia di droga. Persino i suoi genitori, escluso l’ovvio sbagliato, si sono abbandonati alla negazione, pensando che fosse la crescita, una delusione d’amore o una possessione demoniaca, fino a concludere che quel ragazzo altrimenti brillante doveva essere diventato ciò che non era mai stato.
Malato no, quello non lo si poteva sentire. Comprensibile, se vogliamo, se non terribilmente dannoso. Perché dannoso? Perché più tardi ti curi e meno starai bene, detto in parole poverissime. La psicosi è come la ruggine, solo più rapida e violenta: se le dai tempo, si mangerà tutta la carrozzeria. Potrai rifare la macchina, ma non sarà più la stessa, non sarà più “l’originale”. E poi, prima delle voci ed anche dopo, c’è quel killer silenzioso che ti priva di ogni emozione, di ogni volontà e di ogni piacere; un killer che spara con il silenziatore e fa sempre centro. Pezzo dopo pezzo ti toglie tutto, lasciandoti come un guscio vuoto con le cuffiette nelle orecchie non per soddisfazione, ma per distrazione, perché così, ad alto volume, le voci le senti di meno.
Potrebbe essere Geolier, la cavalcata delle Valchirie o Nilla Pizzi, che importa: l’importante è che faccia rumore. “Per un malato considerato pigro c’è un tizio che è cieco, signora mia. Il buon senso comune lasciamolo fuori dalla porta: qui dentro si fa psichiatria”. “E quale spiegazione ci sarebbe, allora?”. “La malattia, quella che né lei né suo marito volete ancora accettare. Io e te ci capiamo, vero Gennà?”. Lo sventurato rispose. Decisi di proporgli di stare un po’ con me, in clinica, dove poteva essere libero di stare male senza essere guardato come un povero stronzo. “Lo vuole ricoverare? Ma mica è così grave!”. La pigrizia, signora mia, nel DSM non c’è, ancora.
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