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Life on Mars? - L’estate, ed altri disturbi stagionali - di Vittorio Schiavone (psichiatra)

Vittorio Schiavone • ago 18, 2024

"Capii immediatamente perché lo fece. Si era reso conto sin da subito che Paride era un ragazzo senza alcun disagio, ma con una gran voglia di parlare e di confrontarsi con qualcuno che lo ascoltasse; sapeva che, se avesse detto ai genitori che non aveva nulla, questi si sarebbero rivolti a qualcun altro fino a quando non fossero riusciti nel loro intento di patologizzazione. Qual era la malattia? Questa diversità da loro. Paride, come non amava il calcio, non amava l’estate, una stagione che trovava decadente (proprio come Montale) e rozza, brutta, inelegante e puzzolente. Non comprendeva perché bisognava necessariamente affaccendarsi, cercarsi a tutti i costi il divertimento insieme a tanti altri che, diversissimi da lui e statisticamente tra loro, dovevano ritrovarsi necessariamente a fare le stesse cose: cose da estate".

È grave, Dottore!”.


No, non una domanda stavolta, ma un’affermazione. L’affermazione di chi già sa, e sa per certezza, non per conoscenza. Alcuni fatti “sono”, e sono fatti. È così, non può che essere così per consuetudine, e ciò che dalla consuetudine si discosta è malattia. Vale per il figlio del delinquente che non vuole seguire le orme paterne nell’attività di famiglia, per il maschio che non si sente a suo agio nel suo corpo e nel suo ruolo o per chi si licenzia dal posto fisso perché è infelice. I più non lo fanno, e se non lo fanno ci sarà un motivo.


Valido, non un motivo qualsiasi. Ci sarebbe da preoccuparsi soltanto se fossimo oche, perché la piccola ochetta non può volere essere un’aquila; ma siamo esseri umani, o dovremmo esserlo, e siamo fatti per scegliere. Ma questa un’altra storia. Paride aveva avuto in dono questo nome, per il nonno. I genitori avrebbero preferito un nome più à la page (trendy, come si usava dire fino a poco tempo fa, ma oggi sarà démodé; proprio come il termine démodé, temo), che ne so, Darian Blu o Caspian, ma temevano che l’ancestore non avrebbe in questo caso sganciato l’eredità. Più che il nome potè il digiuno. Pur desiderando avviarlo ad una nobile carriera di calciatore, furono costretti a scontrarsi con la realtà, che frequentavano per tradizione familiare come un luogo esotico: il pargolo non sembrava molto portato per lo sport.


Così il nonno lo avviò alla lettura ed allo studio, cui si appassionò naturalmente. Il cliché lo vorrebbe come un piccolo nerd/secchione isolato dal mondo, ma ciò che ci si aspetta non è sempre ciò che accade; il piccolo Paride, e poi il Paride adolescente, mostravano doti di socievolezza spiccate, ed un grande piacere a stare insieme agli altri, purché non si svolgessero quelle attività che proprio a lui non andavano a genio. Quelle attività che, seppure così consuete tra i suoi coetanei, non gli procuravano alcun piacere; no, non era disagio come i genitori si ostinavano a pensare, soprattutto facendo il confronto con il fratello minore Darian Caspian Blu (sì, si erano fatti prendere un po’ la mano, avendo carta bianca), pulcino del Napoli, frequentatore di locali già a 13 anni e firmato dalla testa ai piedi in maniera più fitta che i documenti di un mutuo trentennale. Se non disagio, cos’era? Disinteresse, naturale, spontaneo disinteresse per le attività comuni.


A lui piaceva parlare, scambiare opinioni, confrontarsi; sì, non era così facile trovare qualcuno della sua età con cui farlo, perché l’adolescenza è la stagione del fare; proprio come lo è l’estate. Così, quando raggiunse un’età nella quale bisogna organizzarsi con gli amici (per i genitori quest’età coincideva con il dodicesimo anno di vita, ndr), i dubbi dei suoi due donatori di DNA trovarono una certezza. Per fortuna che c’era Darian Caspian Blu, che organizzò ad undici anni appena compiuti una mega festa sulla spiaggia; amore di mamma e papà! Paride era già in terapia da un anno quando lo portarono da me. Il collega psicologo, una persona perbene e molto esperta, aveva preceduto l’invio con una telefonata, contravvenendo al mio desiderio di non sapere nulla dei pazienti prima che li avessi visti, per non essere influenzato nella mia prima impressione.


Capii immediatamente perché lo fece. Si era reso conto sin da subito che Paride era un ragazzo senza alcun disagio, ma con una gran voglia di parlare e di confrontarsi con qualcuno che lo ascoltasse; sapeva che, se avesse detto ai genitori che non aveva nulla, questi si sarebbero rivolti a qualcun altro fino a quando non fossero riusciti nel loro intento di patologizzazione. Qual era la malattia? Questa diversità da loro. Paride, come non amava il calcio, non amava l’estate, una stagione che trovava decadente (proprio come Montale) e rozza, brutta, inelegante e puzzolente. Non comprendeva perché bisognava necessariamente affaccendarsi, cercarsi a tutti i costi il divertimento insieme a tanti altri che, diversissimi da lui e statisticamente tra loro, dovevano ritrovarsi necessariamente a fare le stesse cose: cose da estate.


Lui non si sentiva fuori luogo, ma fuori tempo, e fuori da queste emozioni (mood, si dice oggi) che non riusciva a fingere. Sarebbe stato contento a restare dov’era, a casa, o forse ad andarsene in Inghilterra a studiare l’inglese, o in una città d’Europa a vedere un museo. Ma era estate, e d’estate è un frutto di serra, fuori stagione. “No, non è grave: si chiama evoluzione”. Seguiva espressione acuta come di una mucca che vede passare il treno. “É sarcasmo”, Paride mi venne in aiuto e sorrise. Lo avrei adottato, se solo avessi potuto, ma non posso salvarli tutti.

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