“Che cosa significa, Dottore?”.
La mia carissima amica e stimata collega Marilena, qualche tempo fa, scriveva di come, da noi psichiatri, ci si aspetti una funzione divinatoria. Siamo una sorta di moderni aruspici: solo che, invece di interrogare le frattaglie di pollo, noi dovremmo interpretare il ripieno dei pazienti. Così, di fronte ad un sogno, noi dovremmo saper dire vita, morte e miracoli di questa produzione onirica, noncuranti della vita, morte e, perché no, miracoli della persona che ci sta di fronte. Il presupposto credo sia che noi abbiamo il codice di decodifica “dell’inconscio”, o in qualsiasi altro modo lo si voglia chiamare.
Voglio raccontarvi una cosa. Mia nonna materna si dilettava di astrologia ed interpretava i sogni; quindi, io conosco le caratteristiche di tutti i segni zodiacali sin da piccolo e ho ricevuto in eredità ben due libri “dei sogni”. Sì, ne aveva due: uno che portava bene, uno che portava male. Leggeva nel primo per poi passare al secondo; non ricordo come si arrivasse al risultato, ma credo che provasse sempre ad indorare la pillola, per non far preoccupare nessuno. Più che buona, era una gran paracula, che aveva capito molto meglio di me come si sta al mondo. Bionda e con gli occhi verdi, da piccolo ne ero perdutamente innamorato.
Ma questa è decisamente un’altra storia. Noi psichiatri, come è noto, sappiamo leggere nella mente e, questo superpotere, lo possiamo esercitare sempre, che si sia ad una festa, in un bar mentre beviamo un caffè o in fila per il cesso all’autogrill. Cosa ci costa? State tranquilli, è fine agosto e vi risparmio il pippone su come si dovrebbe provare correttamente ad interpretare un sogno. Non vi dirò, dunque, che è un lavoro terapeutico che pesca nella persona, per cui, teoricamente, lo stesso sogno fatto da me e da un altro non ha lo stesso significato, proprio come non ha lo stesso peso un bonifico di mille euro fatto a Jeff Bezos o a un mendicante (ma non sono tutti miliardari? O è un’altra legenda metropolitana?).
Che ve lo dico a fare, allora? Perché questo discorso si inserisce in un discorso più ampio sulla nostra professione e su come essa viene percepita. In questa particolarissima accezione, lo psichiatra è una sorta di fast food dei processi mentali. La dinamica è quella di problema-soluzione: io te lo porto, tu me lo risolvi. Sarebbe come se al personal trainer noi gli portassimo la panza e lui ci restituisse, senza sforzo alcuno, un fisico palestrato. Nella realtà dei fatti, il fisico ce l’ha lui, mentre a noi resta la panza. Lo psichiatra non solo non ha tutte le risposte ma, di certo, non ha una vita perfetta, benché nell’immaginario del paziente sia così.
Ma va bene lo stesso, fa parte del gioco ed è anch’esso un elemento terapeutico, se sfruttato bene nel setting (“ma fuori dal setting, nessuna pietà”). Continuiamo così, facciamoci del male. La settimana scorsa ero a cena con mia madre; tra una melanzana grigliata ed un petto di pollo ai ferri (che vita di merda, mi viene da dire), lei mi pone una domanda. “Ma anche tu fai come lo psicologo di… che le dice cosa deve fare?”. Tralasciando che sono uno psichiatra, e che per questo paragone mia madre finirà ben presto in una casa di riposo lager, mi colpiva come venga intesa la psicoterapia ai giorni nostri. Dall’idea ancestrale analitica di un tempo infinito scandito da infinite chiacchiere, siamo passati a quella, altrettanto fasulla, di una sorta di life coach basato sul fare e sul buonsenso.
L’idea di un qualcosa di immediato, subitaneo, senza sforzo alcuno. Un pezzo che si fa prima a sostituire che a provare a riparare. Ma siamo davvero solo questo? Non esiste una sola verità; anzi, di verità credo non ne esista proprio nessuna. Di certo ci sono terapeuti molto interventisti, così come ci sono quelli che, alla classica domanda sul da farsi, rispondono sostituendosi al paziente stesso. Io non lavoro così. Faccio già abbastanza fatica a vivere la mia vita in una maniera decente, figurarsi se voglio provare a giocare a vivere la vita di qualcun altro.
Certo, potrebbe essere simpatico operare delle scelte senza prendersi alcuna responsabilità, provando ad assecondare la propria natura o, diversamente, provando ad interpretarne una completamente diversa, sempre senza alcuna conseguenza diretta. Come dite? Non vi sta bene? Ma quando chiedete un consiglio, cosa mai vi aspettate? Credete forse che sia possibile una immedesimazione perfetta in voi? Credete forse, come in un film fantasy, che la vita del consigliere si sostituisca alla vostra? No, amici miei: la vita resta vostra, che ve ne assumiate la responsabilità o no. “Che deve rinunciare alla Louis Vuitton che desidera”. “No! Ne è proprio sicuro?”. “E lei è veramente sicura di desiderarla? Parliamone…”. Il tizio dell’Omega acciaio ed oro non mi ha ancora chiamato, adesso che ci penso. Ed io, con chi posso parlarne, io?
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