Ci imponeva con fervore Nanni Moretti in Palombella rossa: «Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!». E, per l'amor del cielo, le parole sono importanti. Ma come ci si destreggia quando le parole giuste diventano sfuggenti? O quando le parole perdono il loro significato in un flusso di inflazione terminologica? Oppure, il mio preferito: cosa succede quando ci si perde nel labirinto della forma, dimenticando la sostanza? Proprio come accade oggi.
Fate un giro tra asterischi, chiocciole, schwa, declinazioni a ostacoli e vi renderete conto che trovare le parole giuste è diventata una partita di abilità linguistica che non tutti possono giocare. Recentemente (2023), la Confederazione Elvetica ha pensato di dare una mano, pubblicando una guida per il linguaggio inclusivo nella Pubblica Amministrazione, un vademecum su come aggirare le trappole dell'esclusione di genere. Ad esempio, invece di "cittadini", si dovrebbe dire "cittadini e cittadine", ma, sai com'è, è troppo lungo, quindi si opta per "cittadinanza"; o al posto di "lavoratori" e "impiegati", si suggerisce il generico e neutro "personale". Alcuni ordini regionali degli psicologi, altrettanto progressisti e inclusivi, ora si chiamano ordini "degli psicologi e delle psicologhe". Pazienza se in Italia solo il 19% delle donne occupa posizioni dirigenziali (2023, dati AIDP - Ass. Italiana Direzione del Personale), si può scommettere che se continueremo a indignarci per ogni schwa mancante, questa percentuale aumenterà in un batter d'occhio. Basterà crederci.
Il caso "femminicidio" è la ciliegina sulla torta della questione linguistica. Il termine "femminicidio" è stato forgiato nel 1992 dalla criminologa Diana Russell per indicare quelle situazioni in cui la morte di una donna era il risultato di «atti o pratiche sociali misogine». Russell sosteneva che i femminicidi erano uccisioni di donne da parte di uomini «per il solo fatto di essere donne». Una definizione potente, con un uso specifico, che ad esempio troviamo nel testo della Risoluzione del Parlamento europeo dell’11 ottobre 2007 sulle uccisioni di donne in Messico e America Centrale. In alcuni di questi paesi, infatti, persino tuttora, vige una cultura fortemente misogina, dove i diritti della donna anche sul piano giuridico sono fortemente limitati, mentre dominano sottomissione, discriminazione anche violenta e un clima sociale di palese impunità per i colpevoli.
Da un uso così puntiglioso, siamo passati ad una valanga di "femminicidi": ogni uccisione di una donna ad opera di un uomo viene etichettata come tale. Non possiamo ignorare che la violenza e l'aggressività maschili siano un fatto. Sono realtà complesse, che possono essere influenzate da una serie di fattori, tra cui aspetti socioculturali, psicologici e anche biologici. Però non è che gli uomini sono aggressivi solo verso le donne, lo sono anche verso altri uomini. Quindi, sfortunatamente, è ovvio che la maggior parte delle vittime di omicidio femminile siano tali perché vittime di uomini. Ma questo non significa, e non dovrebbe essere confuso con, il "femminicidio". Etichettare ogni morte femminile per mano di un uomo come femminicidio, fa il gioco di una rabbia social mediatica che tende a creare polarizzazioni e divisioni: dipinge le donne come vittime e gli uomini come brutali carnefici. Un quadro distorto che non aiuta a capire le radici del problema e, senza comprensione, la progressione verso soluzioni concrete rimane un miraggio.
Non possiamo sperare di fermare un fenomeno senza capirlo, né possiamo frenare un fenomeno più ampio (l'aggressività e l'impulsività violenta maschile) per contrastare un fenomeno specifico (il femminicidio). Le donne, generalmente, esprimono la loro aggressività in modo molto meno fisico e violento degli uomini. Ovviamente (meglio puntualizzare) non sto dicendo che la violenza e l'aggressività maschili verso le donne non siano un problema, anzi. Quello che sto cercando di evidenziare è che dobbiamo affrontare questi problemi complessi con una comprensione chiara, invece di abbracciare soluzioni superficiali che celano soltanto la mancanza di una vera e propria comprensione.
Discriminazioni, omofobia, misoginia, maschilismo, machismo, femminicidi, non saranno estirpati con le astrusità lessicali o con un uso massiccio della schwa. Infatti, l'illusione di contrastare fenomeni che non vengono nemmeno compresi, può avere l'effetto contrario. Mi pare che stiamo assistendo ad una sorta di meccanismo di difesa psicologica collettiva del tipo "formazione reattiva": mettiamo dei fiori nei vostri cannoni e un asterisco sulla vostra aggressività. L’asterisco come un balsamo lenitivo sulla ferita dell'aggressività e della violenza.
Quindi, in conclusione, la riflessione e l'analisi sui femminicidi e sulla violenza verso le donne dovrebbero essere specifiche e mirate. Non possiamo combattere l'aggressività maschile come elemento genetico, ma possiamo e dobbiamo combattere la cultura misogina che permea molti aspetti della nostra società. Si può lottare contro la cultura di sopraffazione e delegittimazione del femminile che persiste in diverse parti del nostro Paese, non limitandosi a specifiche regioni o aree geografiche, ma riconoscendo che questi problemi possono manifestarsi ovunque, a sud come a nord, nelle aree urbane così come nell'entroterra rurale. E ricordate: le parole sono importanti. Ma forse è anche importante come le usiamo.
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