Nel 431 a.c. Pericle rivolgendosi agli Ateniesi, affermò: «Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, non come un atto di privilegio, ma come una ricompensa al merito… Qui ad Atene noi facciamo così».
Riprendendo quanto ha recentemente scritto in un suo libro lo scrittore e saggista Alessandro Aleotti, “L’illusione del cambiamento”, possiamo dire che l’attuale condizione italiana, in termini di classe dirigente, è ambivalente: pur permanendo la consapevolezza dell’esistenza di valide classi dirigenti che operano nei più svariati campi, la fiducia verso la classe dirigente più esposta simbolicamente, soprattutto quella politica, da ormai un trentennio sta drasticamente declinando.
È fin troppo semplice pensare all’approssimazione dei rappresentanti del popolo sovrano: la corsa alla “rottamazione” di una generazione ha di fatto impedito il naturale ricambio, lasciando il Paese nelle mani di molte persone prive di qualsiasi qualifica e di una visione complessiva del “bene comune”, oltre che di una pochezza culturale disarmante. La Politica, quella alta, non si può improvvisare ma necessita di adeguata formazione che le riconsegni, tra l’altro, la saggezza delle parole, l’eleganza dello stile e l’autorevolezza dell’esempio.
Una persona, per quanto illuminata, non può in tempi brevi disboscare una giungla costruita, negli anni, dai portatori di mediocrità, alcuni dei quali, peraltro, ancora influenzano le scelte pubbliche, tanto da essere necessari interlocutori anche dei “migliori”.
Un sistema Paese efficiente ha certamente bisogno di persone illuminate, ma, ancor di più, necessita di credere e investire nella formazione di una classe dirigente – composta da uomini e donne – che emerga a seguito di una selezione che, ripartendo dall’etica della leale competizione e del “bene comune”, possa ridare dignità al lavoro e rimettere al centro il rispetto delle regole affinché le massime cariche pubbliche siano prerogativa di persone capaci e preparate, mettendo al bando chi non rispetti le regole e chi presenti impietosi deficit di capacità tecniche, competenze o morali («un cittadino ateniese… soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private…»).
Mentre in altri contesti, per esempio la Germania e i Paesi del Nord Europa, esiste una tradizione di buon funzionamento dei meccanismi decisionali che è in grado di relativizzare il tema della classe dirigente, il processo decisionale italiano si costituisce attraverso la stratificazione di un labirintico percorso di dinamiche relazionali che può dare buoni frutti solo se si incarna in classi dirigenti dotate di eccezionale talento.
In termini razionali, la selezione della classe dirigente dipende dalle filiere formative ed esperienziali che vengono poste al servizio di questo obiettivo. Un sistema formativo che, oltre al compito di alfabetizzare la popolazione, possieda punte di eccellenza che selezionano la potenziale classe dirigente, rappresenta il modello più seguito, seppur con significative discrepanze nei risultati.
Alcuni Paesi, soprattutto quelli anglosassoni, possiedono sistemi formativi, valentemente di natura privatistica, che vengono sottoposti a un sistematico meccanismo di accountability da cui emerge una chiara definizione delle eccellenze. Altri Paesi, come la Francia, si articolano in una logica più omogenea e prevalentemente pubblica, su cui si innestano alcune punte di eccellenza volute dal decisore istituzionale, come l’ENA e, più in generale, il sistema delle Grandes Écoles. Nel nostro Paese, un sistema di antichissima tradizione, oggi prevalentemente pubblico, si affianca ad alcune eccellenze – generalmente scaturite dal contesto culturale e sociale della prima industrializzazione – come i Politecnici e la Bocconi. Oggi – di fronte a un’universalizzazione del sapere che bypassa ogni luogo fisico – le eccellenze formative rimangono tali, soprattutto per le esclusive dinamiche relazionali che sono in grado di assicurare.
Infine, è utile anche dedicare una riflessione all’elemento che si pone alla base della selezione della classe dirigente politico-istituzionale: il meccanismo elettorale. In pratica, va certamente censurata la totale mancanza, nei meccanismi elettorali, di requisiti di «competenza minima» per l’eleggibilità. Mentre si riconosce un requisito generazionale nella maggiore età e un requisito di onorabilità nel non aver subito condanne definitive superiori a due anni, non è richiesto alcun requisito di competenza nel superamento dei meccanismi elettorali.
È, quindi, naturale che, essendo la selezione basata solo sulla capacità di conquistare il consenso, la vita politica divenga una campagna elettorale permanente. Il ruolo di responsabilità politica derivante da un’elezione è l’unico ambito di potere per il quale non sia richiesto alcun requisito soggettivo di competenza e questo, non solo produce, ma soprattutto abitua a una classe politica di plateale incompetenza. Ad aggravare questa patologia, si aggiunge l’egemonia di una retorica incondizionatamente «partecipativa» che fornisce anche al più conclamato analfabetismo politico la patente di democraticità.
di Giovanni Passariello
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