di Vera Dugo Iasevoli
E’ assolutamente ingiusto pensare che il nostro patrimonio di arte e cultura sia soltanto concentrato nei grandi centri come Firenze, Roma, Venezia, o la stessa Napoli, in quanto anche in luoghi o città di scarso rilievo, se solo lo cerchiamo, possiamo quasi sempre trovare qualcosa di dimenticato, nascosto, misconosciuto e, quindi, di inedito o, comunque, di trascurato; in parole povere, quel qualcosa che, solitamente, viene chiamato, non senza un certo senso di superiorità e quasi di sufficienza: “arte minore”.
Non immaginiamo neanche lontanamente, quanto ancora ci possa essere, di ignorato o non sufficientemente considerato, nel nostro immenso patrimonio di arte, storia e cultura, e, conseguentemente, quanto, secondo un moderno e certamente più equilibrato modo di concepire i manufatti dell’uomo, non debba più sussistere quell’errato concetto, che ci ha accompagnato per secoli, riguardante la classificazione dell’arte in “maggiore” e “minore”.
Molti esempi si potrebbero fare, al riguardo, sui numerosi piccoli tesori sconosciuti ai più, che si trovano in tutta la nostra penisola, non escluso le nostre regioni meridionali della Calabria e Basilicata, che rappresentano, anch’esse, delle vere e proprie “ricche miniere”.
Tortora è un piccolo e moderno centro balneare della Calabria e, pensare ad esso, significa, per i più, pensare al mare, al riposo, alla vacanza. E invece, al visitatore attento, Tortora riserva qualche piacevole sorpresa, che va oltre il suo splendido mare. Antiche frequentazioni umane, succedutesi sul suo territorio fin dal Paleolitico, infatti, vi hanno lasciato importanti tracce, ancora oggi riconoscibili. I primi insediamenti umani, nella zona in cui poi sorgerà Tortora, si ebbero in località Rosaneto, circa 150.000 anni fa, cioè durante il Paleolitico inferiore, sebbene, sarà solo dal VI secolo a.C. in poi, che il luogo verrà intensamente abitato, prima dall’antico popolo degli Enotri, stirpe indigena, da sempre stanziale nella zona settentrionale della Calabria e della Basilicata; dopo dai Lucani, che scenderanno dalle contrade interne del Sannio e che fonderanno, sull’altopiano del Palecastro, l’antico villaggio di Blanda; e, infine, dai Romani, dai quali l’area sarà completamente romanizzata, con l’ampliamento e la trasformazione di Blanda nella città di “Blanda Julia”.
Pertanto, tutti i reperti rinvenuti, tra cui selci scheggiate, oggetti in ambra, in bronzo e splendidi vasi attici d’importazione (segno inequivocabile di un costante contatto commerciale fra i Greci e gli Enotri), nonché tipiche ceramiche lucane, sono stati, tutti, accuratamente raccolti, catalogati ed esposti, in maniera completa e organica, nel piccolo “Museo Archeologico di Tortora”, allestito appositamente nella suggestiva sede del Castello fortezza, poi trasformato in Palazzo, che, dall’XI secolo in poi è stato sempre abitato dai vari feudatari, susseguitisi nel luogo, fino ai principi di Casapesenna. Il Museo si trova nel centro storico di Tortora, nel nucleo antico del paese, in quell’abitato tipicamente normanno, che sorse inerpicato su uno sperone roccioso, per difendersi dalle incursioni saracene, così come molti altri paesini, lungo la costa calabra.
Ma la Calabria riserva ancora tante altre sorprese, una delle quali è certamente quella che si presenta ai nostri occhi, nel riparo della “Grotta del Romito di Papasidero”, in cui è stata rinvenuta. Oltre al ritrovamento di generici elementi di frequentazione umana, risalenti al Paleolitico superiore, su di una parete della grotta è stata trovata, scolpita su di un masso, l’effige di un bovide, il cosiddetto “bos primigenius”. Questo tipo di immagine è considerata, attualmente, fra i graffiti più antichi al mondo ed è databile all’incirca ad 11.000 anni a.C.
E sempre a proposito di grotte, in quanto scrigno di patrimoni del passato che, tuttavia, sono rimasti a lungo ignorati, è importante fare cenno anche ad un altro importante ritrovamento, che risale a qualche anno fa e, cioè all’individuazione, in Basilicata, nella zona del materano, di una grotta splendidamente affrescata che, tuttavia, fino ad allora era stata completamente ignorata, perché si era persa la memoria della sua esistenza. Conosciuta soltanto da alcuni pastorelli, che vi si rifugiavano con le proprie pecore per riposare e rimanevano quasi atterriti da tutti quei volti severi, che li osservavano nel silenzio e nel buio della grotta, fu scoperta soltanto in base alle loro stesse narrazioni e indicazioni.
Da molti critici è stata definita “Una piccola Cappella Sistina Medievale”, mentre dai pastori era indicata come “La Grotta dei Cento Santi”, anche se non erano proprio cento le immagini sacre dipintevi. Ufficialmente, comunque, essa è stata catalogata come: “La Cripta del Peccato Originale”
Gli affreschi che vi si trovano e che risalgono all’alto medioevo, non risentono tuttavia dell’influsso bizantino, se non nella figura maestosa, altera, splendidamente abbigliata della Vergine, che ha tutta la staticità, frontalità, ieraticità, fissità e regalità delle rappresentazioni nei mosaici ravennati, e intorno alla quale aleggiano a profusione grandi rose rosse, che riempiono tutto lo sfondo, in una sorta di “horror vacui”, tipico dell’arte longobarda, tanto che Sgarbi ha voluto dare all’autore degli affreschi, il nome di “Maestro dei Fiori di Matera”.
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