C’è una costante nella carriera politica di Luigi Di Maio, la ricerca di un padre, una figura di riferimento, una guida. Strano destino perché Luigi ha un padre naturale molto “forte”, abituato alla politica (fu attivista locale del MSI con agganci nazionali), che è stato sempre per il figlio un critico sincero, defilato pubblicamente ma assai presente forse a volte ingombrante. La ricerca di un padre quindi, una figura forte, una guida protettiva nell’assalto delle sue ambizioni. Di Maio ha “toccato” il potere molto giovane quando da liceale intervistò Gianni De Gennaro all’epoca commissario straordinario per i rifiuti in Campania. (Questo devo contrallarlo, se era al Liceo o già all’Università).
ll Prefetto è uomo di sostanza, un duro. Amatissimo in Polizia, paladino dell’antimafia quando la ricompensa erano pallottole e non encomi, De Gennaro ha una caratura molto poltica che gli ha consentito di essere protagonista della stagione dell’antimafia targata Violante e dopo il responsabile del disastro del G8 rimanendo al suo posto nonostante la mai celata avversione del partito di Silvio Berlusconi. De Gennaro è il primo vero potente trasversale che Di Maio incontra giovanissimo e il rapporto non si è mai affievolito. La trasversalità è la principale caratteristica che Di Maio ha sempre ricercato nei suoi interlocutori: il secondo è stato Ugo Zampetti, potentissimo direttore generale prima di Montecitorio e ora del Quirinale. La vulgata di Palazzo vuole che sia stato proprio Zampetti la guida di Luigi per orientarlo nei meandri dei regolamenti parlamentari che videro il futuro capo del movimento destreggiarsi con un certo successo come vicepresidente della camera fin dal 2013.
L’incoronazione come valido interlocutore politico, l’unico nel M5S di allora, arrivo però da Matteo Renzi. Lo scambio di biglietti tra i due in una drammatica seduta alla Camera sigillerà un patto che sarebbe durato fino al 2016, fino al referendum. Di Di Maio Renzi disse ai suoi, “è stato il mio più grande errore politico di valutazione”. C’è un mondo dietro questa frase.
Tra Grillo e Casaleggio, fu ques’ultimo che Luigi scelse come “padre putativo”, una scelta intelligente perché era lui il vero capo, non amato come Grillo ma temuto, tanto forse troppo. La scomparsa del fondatore accelerò la scalata di Luigi che una idea l’ha sempre coltivata, quella del fastidio non solo politico ma epidermico nei confronti di certi toni e della stragrande maggioranza degli eletti in parlamento. La carriera politica diLuigi Di Maio è la cartina di tornasole perfetta per poter dire chiaramente che M5S è stato un taxi perfetto che cela una maledizione, chi scende viene dannato.
Questo Luigi l’ha sempre saputo. Va letta sotto questa luce quindi, psicologica e poltica, la ricerca costante di una guida esterna. Morto Casaleggio senior non c’era nessuno che potesse proteggerlo e insegnargli qualcosa. Il Movimento per lui aveva definitivamente concluso la sua funzione. Gli mancava l’ultimo step, diventarne il capo. Con una conseguenza, non voluta anzi temuta ed allontanare con sdegno: avrebbe dovuto farsi carico dell’intero asset con le sue feroci lotte interne, incapace ad evolversi. Per almeno un paio di anni dall’inconorwzione al consolidamento di Conte come suo contraltare, Di Maio ha avuto l’ambizione di trasformare M5S nel suo partito, imporgli l’agenda, provare a renderlo a sua immagine e somiglianza.
Ecco allora la stretta relazione con una vecchia volpe democristiana come Scotti, e in parallelo la strutturazione di un dispositivo personale, un mix di vecchio e nuovo: da una parte Pietro Dettori, cassaforte delle memorie del partito casaleggiano dall’altro un battitore libero come Augusto Rubei, un ambasciatore nelle stanze romane che contano. C’è un momento in cui il taxi ha smesso di funzionare nell
aMente del ministro: quando finì coinvolto nella brutta, e mai fino in fondo scritta, storia della messa in stato di accusa di Mattarella. Fu il punto di svolta, da lì nasce nella testa di Di Maio l’irriformabilità del movimento. la sua definitiva costituzionalizzazione. Esattamente due anni dopo avverrà l’incontro con Mario Draghi. In mezzo ci sono le dimissioni da capo politico, gli errori di comunicazione (la foto dal balcone di Palazzo Chigi e lo slogan “abbiamo abolito la povertà) che più volte lui stesso ha fatto capire di ritenerli tali.
Mentre l’Italia contiana felicemente si prostrava in lockdown alle dirette Facebook, Putin e la Cina invadevano con la loro propaganda e i loro asset politici il Paese, Di Maio scommise su un futuro diverso. Proprio lui che aveva avallato tutte le scelte sovraniste, filo cinesi e filorusse, iniziò a cambiare pelle, alleanze e prospettive. Nel gennaio 2021 iniziò uno scouiting molto poco riservato tra i parlamentari m5s, “ho un progetto fuori il Movimento”, così diceva a tutti quelli che incontrava. Voleva che si sapesse per poi smentire sui media. Ma non ebbe il coraggio di mettere pubblicamente la firma alla degenerazione di Conte, mantenne un ruolo assai defilato, un tipico tic democristiano.
Ma con Draghi al timone iniziava ad essere possibile quello che prima pareva impensabile. È la poltica estera che spiega molte delle sue scelte. Ma il pensiero, la strategia, la previsione possono essere veloci ma di certo lo devono essere anche le azioni. E così allo scoppio della guerra serviva quella velocità che Luigi non ha avuto e se tutti o quasi sapevano dei suoi progetti, la loro messa in pratica fu forse troppo lenta. Tutto era stato previsto: altri 12 mesi di Merio Draghi e M5S sarebbe finito sott’acqua, la guerra e l’emergenza economica lo avrebbero catapultato nell’empireo di quei giovani che un tempo contestavano e raggiunta la maturità si sedevano al tavolo dei grandi. Sotto la protezione di Draghi il partito dimaiono avrebbe potuto decollare.
Il piano per qualche settimana ha funzionato, a frotte uscivano dalla casa madri per riabbracciare Luigi nella nuova avventura: basta sovranismo, basta con la comunicazione ansiogena, basta con ingombranti compagni di strada. Ci fu anche chi previde addirittura per lui la poltrona di segretario generale della NATO che dovrebbe essere appannaggio italiano alla scadenza del prossimo anno. Tutto sembrava perfetto nella strategia e negli avvenimenti.
Come è finita è noto.
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