di Severino Nappi*
Si è infiammato in Parlamento il dibattito sul salario minimo legale, con una discussione che sta raggiungendo dei picchi di paradosso poche volte toccati nella storia del nostro Paese. Vediamo perchè è così, al di là delle posizioni politiche. Del sistema si sono dotati già 21 Paesi dell’Ue, nell’ambito di un progetto complessivo dell’Unione europea che spinge per stabilire regole in grado di garantire maggiore dignità ai lavoratori. Nelle Nazioni in cui è stato adottato, l'entità del salario minimo è molto variabile: si va dai 332 euro della Bulgaria ai 2.022 del Lussemburgo. Variabile è pure il rapporto con i redditi medi. Indicativo, a tal riguardo, il dato della Slovenia che - con il 53,6% del reddito medio relativo al settore dell'economia aziendale e al 50,6% per industria, costruzioni e servizi - risulta essere il primo Stato anche per rapporto tra salario minimo e reddito medio. È seguita, sotto questo aspetto, da Spagna e Portogallo. Mentre la Germania, uno degli Stati con il salario minimo più alto, registra un dato inferiore (41% in media tra i due settori di riferimento).
Alla luce della doppia possibilità rispetto al sistema del salario per legge o a quello per contratto collettivo, è forse sfuggito a tanti che l’Unione Europea, nella proposta di direttiva che è alla base dell’intera questione, ha espressamente indicato che è il secondo modello a doversi preferire in ragione dell’ampiezza delle tutele offerte ai lavoratori. Non dimentichiamo infatti che, mentre il salario legale fissa esclusivamente l’entità del trattamento economico, il contratto collettivo disciplina tutti gli aspetti della vita lavorativa. Com’è noto, in Italia non esiste una disposizione di legge che stabilisca l’entità del salario in quanto lo stesso viene determinato dai contratti collettivi, la cui applicazione, anche di fatto, è a sua volta garantita dall’art. 36 della Costituzione.
In realtà, la nostra Costituzione prevede anche la possibilità di arrivare a fissare un salario obbligatorio per legge. Ma, nonostante i fattori - primo tra tutti quello delle molteplici spinte corporative - che hanno impedito di attuare l’articolo 39 (che appunto, prevede questo meccanismo), in Italia oltre l’80% dei rapporti di lavoro ha la copertura di un contratto collettivo.
Ma allora perchè nel nostro Paese abbiamo 6 milioni di lavoratori regolari le cui condizioni economiche rasentano la soglia di povertà, tanto che l’Italia è al quarto posto nella relativa classifica europea? I motivi sono molteplici, come per ogni questione complessa, anche se il fattore principale va ricercato nel meccanismo di funzionamento della contrattazione collettiva, che non incide come dovrebbe a causa della mancanza di forza necessaria da applicare per introdurre condizioni di lavoro migliori.
Ciò ha portato inevitabilmente a una crescita esponenziale del numero dei contratti collettivi e alla diffusione di contratti cosiddetti “pirata”, minando, dall’interno, la forza della rappresentanza sindacale, anche quella storicamente autorevole ed effettivamente rappresentativa. Tant’è che i principali sindacati nazionali sono firmatari di contratti collettivi in alcuni settori (penso a quello dei servizi ausiliari per esempio) che prevedono retribuzioni orarie inferiori ai 5 euro, del tutto insufficienti a garantire ai lavoratori e alle loro famiglie una esistenza dignitosa e libera dal bisogno.
Di fronte a questa situazione di impoverimento graduale e costante dei lavoratori, l’opposizione propone l’introduzione anche in Italia del salario minimo legale. Lo dico subito. E’ una soluzione che non convince e che può persino rivelarsi un boomerang. Infatti, a fronte di un trattamento economico minimo fissato per legge, è largamente probabile che il sistema produttivo - specie per i livelli occupazionali medi - decida di attestarsi alla soglia legale che, invece, oggi è già superata da oltre 2/3 della forza lavoro complessiva. Al contempo, un meccanismo come quello del salario legale inevitabilmente finirebbe per portare pure alla progressiva erosione dei trattamenti economici accessori (permessi, indennità, premi di produzione, ecc.) che verrebbero risucchiati nella natura totalizzante del salario legale.
E questo senza considerare che, in assenza di impulsi provenienti dalla contrattazione collettiva, le misure di welfare aziendale (che già stentano a trovare ingresso specie nelle realtà produttive di minori dimensioni) tenderebbero a rarefarsi ulteriormente, con il conseguente ulteriore peggioramento delle condizioni complessive di lavoro. Insomma, esistono numerose controindicazioni che tuttavia paiono totalmente dimenticate in dibattito ormai avvitato in una deriva politica che a me appare molto strumentale. A mio avviso, invece, la soluzione al tema del trattamento economico dei lavoratori di questo Paese - che peraltro si salda inevitabilmente a quello dell’eccessivo costo del lavoro lordo - va affrontato in una dimensione completamenti diversa. Per comprenderlo meglio, bisogna ripensare alle dinamiche che si attivarono al tempo del cd. “boom economico” degli anni ‘60, quando la crescita e lo sviluppo furono accompagnati, e anzi favoriti, dalla diffusione della contrattazione collettiva.
Infatti, fu proprio la spinta da essa proveniente a assicurare, da un lato, stabilità al mercato del lavoro e alle imprese e, dall’altro, a garantire benessere e sicurezza ai lavoratori. È chiaro che oggi sarebbe anacronistico e infruttuoso ripresentare quel modello. Tuttavia, quell’insegnamento non va dimenticato, ma aggiornato nel rispetto delle medesime dinamiche positive che l’accompagnarono. Dunque, è necessario intensificare l’attuale politica espansiva degli investimenti (Pnrr e gli altri fondi europei) con l’ovvia precisazione che occorre garantirne il buon funzionamento perchè - specie al Meridione - è l’utilizzo efficiente di questi strumenti la condizione di contesto nella quale possono crescere i consumi e con essi i salari. Sul piano specifico, invece, bisogna prendere atto della necessità di un radicale cambio di passo nel sistema della rappresentanza sindacale e questo impone un intervento normativo sulla rappresentanza. Soprattutto, però, si deve finalmente superare l’impostazione, vetusta e controproducente, della natura conflittuale delle relazioni sindacali, specie sul piano dei trattamenti economici - terreno su cui si continua a registrare uno scontro tra impresa e lavoratori - che è uno dei principali ostacoli alla crescita comune
Ecco perché bisogna puntare su di un nuovo modello di partecipazione, coinvolgendo i lavoratori e le loro rappresentanze sindacali nel raggiungimento degli obiettivi e nelle politiche aziendali. In un percorso che parta dalla valorizzazione dei premi di risultato per sostenere la produttività dell’impresa e si snodi attraverso forme di partecipazione diretta dei lavoratori e delle loro rappresentanze negli organismi gestionali delle aziende. Del resto, questo disegno è già scritto nella nostra Costituzione all’art. 46 ed è anche confermato dalla felice esperienza tedesca che, dai meccanismi di compartecipazione gestionale dei lavoratori all’impresa, ha tratto lo slancio per rifondare la propria economia, assicurando un livello di trattamenti economici e ancora di più di welfare assolutamente invidiabili. Contestualmente occorre infine gettare le basi per una nuova stagione del diritto del lavoro, capace di offrire diritti e garanzie a tutti i player del mercato del lavoro, nella prospettiva di un Paese che torni a viaggiare sui binari della condivisione e della compattezza nel riparto delle responsabilità, nell’impegno e negli obiettivi.
*Ordinario Diritto del Lavoro e Capogruppo Lega Consiglio regionale Campania
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